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Emiliano a Bari per la consegna del ‘Sigillo d’Oro’

E’ inutile nascondere l’emozione di essere qui con voi nella mia università, nell’università della mia città, nel luogo simbolo dell’intraprendenza culturale e sociale dei baresi che all’inizio del novecento, perseguirono con tenacia l’idea di Gaetano Salvemini di realizzare a Bari un Ateneo con una prospettiva adriatica, “per esportare idee e cultura e per realizzare un ponte verso i Balcani”.
All’epoca non fu facile né scontato, ma non lo sarebbe neanche oggi nel Paese in cui “Cristo si é fermato ad Eboli” realizzare  in Puglia una delle più prestigiose istituzioni accademiche, la cui crescita si è intrecciata con gli eventi più importanti della nostra storia. Una opera titanica che, per usare l’espressione di Tommaso Fiore nel suo “Un popolo di formiche”,  avrebbe spaventato un popolo di giganti.
Quindi la mia emozione non è soltanto quella legata alla solennità di questa cerimonia ma anche a quel sentimento di orgoglio che solo la gente del sud prova, in modo così forte, nel rivendicare con fierezza i risultati raggiunti, in un contesto territoriale non facile quello che lo stesso Fiore descriveva al piemontese Pietro Gobetti come “un mondo serrato nel dolore e negli usi, senza conforto e senza dolcezza”.
Di questa intraprendenza e laboriosità sono particolarmente orgoglioso, perché le nostre radici del sapere e della conoscenza si sono nutrite di questa terra e dei suoi peculiari valori.  Ho studiato in questo Ateneo e mi sono laureato nella stessa facoltà dove hanno insegnato Pasquale Del Prete, Aldo Moro e il suo allievo Renato Dell’Andro, Giovanni Leone, l’innovatore Gino Giugni, lo storico del diritto romano Franco Casavola. E’ stata l’accademia di un pezzo importante della classe dirigente del nostro Paese in un periodo storico particolarmente delicato, durante il quale la nostra democrazia incominciava a muovere i primi passi dopo la dittatura, la guerra e la lotta di resistenza al nazifascismo.
Questo è l’Ateneo dove ha studiato Aldo Moro. Fu proprio Aldo Moro durante i lavori della Costituente ad esprimere con forza la necessità che la Carta Costituzionale contemplasse una formula di convivenza, per ricostruire il senso di appartenenza ad una comunità e, ovviamente, per fissare i principi che avrebbero orientato la futura attività dello Stato italiano. L’idea di Moro partiva dalla necessità di dover procedere alla costruzione di una “casa comune” per la nuova democrazia italiana. Disse in assemblea: “Se nell’atto di costruire una casa comune, nella quale dobbiamo ritrovarci ad abitare insieme, non troviamo un punto di contatto, un punto di confluenza, veramente la nostra opera può dirsi fallita”.
Moro era uno strenuo e convinto sostenitore del valore dell’unità popolare, raggiunta con la Resistenza e consolidata con la Costituzione, e per lui questa era la premessa di ogni percorso di rinnovamento sociale e istituzionale.
Era portatore di quella “vocazione all’intesa”, di quella consapevolezza del valore del confronto che riteneva fondamentale nella costruzione di una comunità nazionale che doveva lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra e della occupazione nazifascista.
Si trattava, come ha ricordato a Bari il Presidente Mattarella, di una concezione sostanziale delle norme della Costituzione – soprattutto di quelle della sua prima parte – che auspicava unità delle forze politiche sui valori di base, senso comune delle istituzioni e coesione sociale. Invero, del termine «coesione» formalmente nella nostra Costituzione non v’è traccia né nella parte relativa ai «Principi fondamentali» né nella parte relativa ai «Diritti e doveri dei cittadini». E,  fino al 2001, non vi era traccia alcuna del termine «coesione» in nessun’altra disposizione. Solo con la riforma del Titolo V è stato inserito tale termine nell’art. 119, quinto comma, unito al termine «solidarietà sociale».
In realtà, la nostra Costituzione prima che un documento normativo è innanzitutto un documento “politico” che incarna e fa proprio un patto nazionale di convivenza e di crescita di tutto il popolo italiano. E il termine «coesione», all’interno di questo contesto, seppur non espressamente richiamato, assume, a ben vedere, sia il connotato di un principio fondamentale che quello di un valore costituzionale, diventando persino un precetto giuridico di rango costituzionale, sia che lo si voglia declinare con l’aggettivo nazionale sia che lo si voglia declinare con l’aggettivo sociale.
Quindi, se nella nostra Costituzione non compariva il termine «coesione» è solo perché, nel momento in cui vide la luce, era ben più pressante il tema dell’integrità statale, ma i Costituenti sapevano bene, dopo la lacerazione del tessuto sociale causato  dalla guerra civile, che l’unità nazionale poteva essere costruita solo grazie ad un processo dinamico e che l’unità di una comunità politica non poteva assumersi come un dato acquisito, bensì come un risultato al quale tendere. Ma andiamo per gradi. Innanzitutto, intendiamoci sul significato del termine «coesione».
Per “coesione” si intende una interazione sistematica tra le diverse componenti di un insieme la cui struttura sarebbe altrimenti disorganica, incapace di raggiungere un equilibrio funzionale. Questa definizione consente, in prima battuta, di distinguere la «coesione nazionale» dal principio di «unità nazionale» ripreso dall’art. 5 Cost. La coesione appare, innanzitutto, un puntello imprescindibile del principio di unità nazionale. Un ordinamento pluralistico presuppone la coesione nazionale quale suo necessario elemento di tenuta.
Oggi, spesso, il semplice richiamo dell’unità nazionale allude alla ricerca dell’integrazione politica della totalità statale e, ogni qual volta, si evochi il principio unitario si corre il rischio di un  uso “polemico” capace di accantonare le differenze che, invece, sono la vera essenza di una società pluralistica così come di un compiuto pluralismo istituzionale, senza il quale non si può neppure concepire un regime democratico.
La coesione, in un assetto pluralistico, mira a ravvicinare le diverse componenti (sociali e istituzionali) stimolando il senso di appartenenza ad una stessa comunità, aggregata intorno ad alcuni essenziali princìpi generali per il perseguimento di condivise finalità generali. Le due espressioni, pertanto, non sono equivalenti ma neppure tra loro slegate. La coesione nazionale, in altri termini, è la faccia dinamica dell’unità nazionale e, appunto – come dicevo – punto di tenuta del principio pluralistico. Il pluralismo, infatti, può degenerare nel momento in cui le differenze rinunciano ad operare quali risorse del sistema, per divenire invece fattori disgregativi.  Ciò accade quando le distanze assumono dimensioni tali da “polverizzare” le comuni fondamenta sulle quali è eretta la struttura sociale ed istituzionale. In una simile evenienza, l’unità nazionale consente di preservare l’integrità dello Stato.
Ma questo non è sufficiente. Nelle società in cui il pluralismo è ascritto tra i valori fondamentali, quale quella italiana, è necessario un moto centripeto che compensi la potenziale forza centrifuga esercitata, senza perdere le virtù insite nel concetto di diversità. E’ qui che la coesione interviene.Ma l’espressione coesione nazionale è solo il punto di sintesi di un processo ben più ampio ed articolato che ne presuppone un altro: la coesione sociale. La coesione sociale è una dimensione capace sì di ammettere diseguaglianze ma che non siano la conseguenza di privilegi o di discriminazioni.
Ma qual è lo spazio costituzionale all’interno del quale la coesione sociale si muove e quali sono le sue principali coordinate?
Il principio che richiama il moto di coesione sociale è senz’altro quello della solidarietà intesa nelle sua duplice accezione:

  • la solidarietà paterna che impone alle istituzioni pubbliche (tra le quali,  la Regione che mi onoro di rappresentare) di intervenire nel ridimensionare gli squilibri sociali e di vigilare sull’adempimento di taluni doveri giuridici rilevanti sul piano delle relazioni comunitarie a forte connotazione sociale;
  • la solidarietà fraterna, cioè tra privati, quale forma di responsabilità altruistica che si rileva al di fuori del solo recinto dei doveri o degli obblighi.

Così intesa, dunque, la solidarietà, svolge una funzione di integrazione sociale e contribuisce perciò a garantire un minimo livello di omogeneità nella compagine sociale, ancorché pluralista e frammentata, ridimensionando il tasso di esclusione dei soggetti deboli dal progresso materiale e spirituale della società: minori, disoccupati, stranieri, portatori di handicap. La coesione in termini solidali promuove quindi il senso di appartenenza alla comunità. Un riferimento esplicito alla coesione “solidaristica” è contenuto anche nell’art.11 dello Statuto della Regione Puglia che a tal fine promuove e favorisce la cooperazione mutualistica senza fini speculativi (art.11 co.3 dello Statuto).
Un altro elemento fondamentale sul quale incide la coesione sociale è la partecipazione politica, laddove partecipare non vuol dire solo esercitare il voto ma essere protagonisti della vita politica, economica, sociale e culturale del Paese, contribuendo a stabilire effettivamente l’oggetto su cui discutere per l’adozione di future decisioni. La coesione sociale diventa, così, un ammortizzatore delle ineluttabili imperfezioni della democrazia.
Se la selezione degli eletti, la contrapposizione tra forze dominanti e gruppi sconfitti, le decisioni assunte attraverso il principio di maggioranza sono elementi in grado di dividere, la coesione, invece, ricompone forze disaggreganti indirizzandole verso un assetto dinamico che può assumere, nel tempo, una distinta configurazione nei rapporti tra le componenti sociali.
La Giunta regionale ha presentato un disegno di legge – attualmente all’esame del Consiglio Regionale- che pone al centro dell’agenda della vita istituzionale e sociale, il tema della declinazione della sovranità popolare, sancito dall’art.1 della Costituzione, in materia di partecipazione alle scelte ed alle decisioni importanti e strategiche per un territorio.   Tutto ciò in una prospettiva che non si limita all’affermazione di alcuni principi democratici fondamentali, ma che da questi trae concreti strumenti di governance,  attraverso la costruzione di un metodo basato, innanzitutto, sulla informazione, sulla trasparenza, sulla consultazione, sull’ascolto di tutti i soggetti interessati.
Le ragioni di questa legge sulla partecipazione popolare muovono dalla necessità di prendere decisioni pubbliche “giuste”, con un convincimento sufficiente a permetterne l’attuazione. Due sono i suoi principi ispiratori: il primo, attiene alla qualità della democrazia, ovvero alla necessità sempre più pressante di riconnettere la politica e le istituzioni alla Società, di riattivare i cosiddetti corpi intermedi, di creare una diffusa responsabilità di coesione sociale, in grado di rendere più efficaci le politiche pubbliche; il secondo attiene alla necessità di una effettività ed efficacia delle scelte pubbliche a fronte dei conflitti che in molti casi rallentano o bloccano i processi decisionali.
In conclusione, non posso non ricordare che l’espressione coesione sociale ha trovato la sua più frequente utilizzazione nel sistema delle autonomie e nel rapporto tra i diversi livelli territoriali e le proprie comunità di riferimento, con riguardo alla capacità dei primi di soddisfare gli interessi delle seconde.
E’ qui che torna la previsione del quinto comma dell’art. 119 Cost. che, nella varietà pluralistica dei livelli di governo, riconosce l’esistenza di aree e contesti sociali ed economici bisognosi di interventi mirati, per riequilibrare il sistema complessivo al fine di rafforzarne l’efficienza e la competitività. Di riflesso sono destinate a trarne giovamento anche le comunità dei territori in ritardo di sviluppo attraverso politiche di perequazione.
La coesione sociale puntella questa azione contenitiva immettendo nell’ordinamento delle autonomie rimedi, soluzioni, accorgimenti idonei a ridurre le distanze tra le diverse regioni e tra i diversi enti locali. La tematica è talmente interessante e con diverse chiavi di lettura sia politica che istituzionale che ho potuto appena elencare alcuni dei profili più spinosi.
Ben più forte è, invece, la sfida di coesione che richiede di risolvere e stabilizzare le tensioni derivanti dal fenomeno non più contingente dell’immigrazione o le tensioni disaggreganti rappresentate dal fenomeno sempre più pervicace e destabilizzante della criminalità organizzata.
Il mio auspicio finale è che la coesione, quale indiscutibile  motore di crescita  e di progresso della nostra società, ispiri concrete e coerenti politiche di rafforzamento dello Stato sociale e pluralista e  preservi la  democrazia da ogni forma di populismo o demagogia.

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