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Forme D’Arte: La Taranta

 

Ivana OrlandoSono lieta di poter presentare nella mia rubrica – FORME D’ARTE –  ai lettori di “Oltre “  un’orma acerba ma “vissuta” nelle parole, Chiara Nirta.        Ivana Orlando

La Taranta’

 

Non mi ricordo quando fui ‘mozzicata’ dalla taranta con precisione, ho un ricordo vago di sole sfocato. Ho un ricordo vago da bambina impertinente che mi induce a dubitare se il morso ebbe luogo il giorno che fra le piante di fichi d’india il ragno che mi s’appiccicò fra i capelli mi morsicò, o avvenne quando sempre in tenera età mi dissi, stesa sulle roventi piastrelle ‘duchianu’, ‘io esisto’ con una consapevolezza troppo grande per l’età innocente che mi conteneva e che avrebbe scatenato in me una sequela di domande abnormi a cui mai avrei trovato risposta. Cosicché la mia corsa frenetica senza posa e un mal di vivere pari alla strabiliante capacità di vita che mi esplodeva dentro avrebbero continuato a darmi battaglia per il resto dei miei giorni. Mi ricordo solo che dopo l’ideale o reale (non l’ho neppure inteso ad oggi) morso, io non fui più io. Io ero e sono uno spasimo continuo di un protendersi senza fine: nel dubbio, nella ricerca, nella corsa, nei movimenti; una scheggia senza casa e che è stata accolta da tutti i luoghi del mondo, che ha vissuto su panchine e alberi di fico e dormito in letti comodi, una scheggia che non ha obiettivo né mira, se non la stessa corsa che si viene compiendo. Ernesto De Martino, grande etnologo italiano, compì con un’èquipe preparatissima insigni studi concernenti il tarantismo nel suo viaggio mistico-culturale nella ‘Terra del Rimorso’ che edifica l’esoterico Salento. Ha scardinato e assemblato tutti i retaggi, gli stati psichici dei tarantati , gli eventuali veri morsi (di Latrodectus e Lycosa (i ragni protagonisti del ‘morso’), gli atteggiamenti pagano-cattolici e la loro commistione, i riti mitici e agresti che avrebbero potuto influire e tutta la letteratura meridionalista di stampo folkloristico, insomma, tutti gli elementi che avrebbero concorso a dar vita al tarantismo e al suo simbolismo magico-medicamentoso, al suo alone di mistero quasi religioso e mezzo schizofrenico. Le tarantate (erano per lo più donne), venivano esorcizzate a suon di ‘pizzica’ e tarantella, associavano simboli cromatici, suoni e nenie antiche, quasi lugubri a quelle ritualistiche ‘abballate’ nelle notti di luna piena spesso, che avevano il compito di ‘svelenare’ la vittima ‘ammorsata’. De Martino ci spiega che queste donne utilizzavo l’escamotage dell’avvelenamento, tante volte inconsapevolmente per ballare freneticamente e disfarsi di tutte le frustrazioni, gli istinti repressi, le questioni irrisolte che le attanagliavano attraverso quella frenesia incontrollata che aveva luogo durante lo svolgimento del ballo. Ma la tarantella è anche ammantata da componenti mistiche, si riteneva che Santo Paolo avesse il potere di liberare le perseguitate da quella spasmodica melanconia che si portavano appresso, ma contrapposto all’Apostolo delle Genti, vi era San Vito, vera e propria immagine simbolista del ballo zampettante, si disputavano idealmente e simbolicamente battaglie mute con l’occulto. A Galatina in Salento vi era una vera e propria Cappella in Onore di Santo Paolo, o meglio, vi è tutt’oggi… dove durante la ricorrenza delle feste dei S.S. Pietro e Paolo i tarantati rendevano omaggio al Santo con fioretti e balli scatenati sperando in un’intercessione che potesse dar loro le meritate requie, la pace dei sensi. Il tarantismo risale al Medioevo, è da quei tempi remoti che la gente di Sud si porta dentro il ragnetto inquieto della vita, è una tradizione magica e mistica che è divenuta più uno stato d’animo esistenziale ed umano, una scelta, un prendere posizione all’affronto della vita che altro. La danza, le morsicate, il ragno, i richiami cromatico-coreutici si leggono in un simbolismo tutto proprio che col tempo è venuto caricandosi di mille accezioni. Il tarantismo era per alcuni aspetti l’equivalente il mal di vivere nascente da una popolazione povera, agreste, da una condizione femminile emarginata, sottomessa, subdolamente repressa sessualmente e che necessitava di esplodere in un grumo sanguigno fatto di nervi tesi, sudore, colpi di sole, questioni interne aggrovigliate, stati d’animo contraddittori e indifferenze che troppo a lungo avevano gravato e inaridito il gaudio delle loro vite, avevano necessità di palesarsi, anzi d’imprimere le personalità indiavolate e ossesse, quasi dissacratorie che l’austera religione sopprimeva, e che la gente di Sud, quasi per eredità greca e messapica si portava appresso. I morsicati spesso si lasciavano andare durante la danza a comportamenti licenziosi dettati da appetito venereo, sgambettavano con tutta la foga possibile per scaricare la rabbia, cantavano per dar voce al loro inascoltato interno e come per un salto a ritroso si veniva ricatapultati ai riti bacchici in cui i protagonisti (satiri, fauni, sileni, belanti umani agresti, ma pure streghe demonizzate, che danzavano fra le nebbie lontane di abbacinanti lune di luglio) davano luogo a quei riti dionisiaci. Il morso aveva conseguenze che erano scelte, il ragno ti avrebbe continuato a ‘pizzicare’ per il resto della vita, lo ‘svelenamento’ era solo parziale e s’attenuava col ballo, con quel tamburello che frustava l’aria e il cui suono netto e informale, paesistico, che sbucava da vie e acciottolati rurali dei riarsi paesini di Sud si sentiva da ogni dove, nel silenzio tacito della sera. Non soltanto il Salento brulicava di queste atmosfere irreali, ma il senso definitorio di realtà-inganno s’assottigliava in tutto il meridione e il sogno e la verità avevano confini labili per contraddistinguersi nettamente. Il Ballo di San Vito, chi ne è affetto non può rimanere fermo… Il Ballo di San Vito è una malattia vera e propria, la famosa Corea di Sydenham che impone movimenti involontari e schizofrenici, ma che in questo caso s’avvicina per una metafora d’inquietudine e di repulsione all’immobilità, all’incapacità di stare fermi, sintomi che i tarantati conoscevano a menadito, era la danza dei disadattati, dei dispersi, degli sciancati, ma anche dei coraggiosi, dei licenziosi, il dolore riproposto dei gambizzati all’esistere che arrancavano cogli arti scricchiolanti. Mi ricordo un caso studiato da De Martino, una tarantata di nome Maria di Nardò. Ecco: ogniqualvolta che ballo, danzo anche in nome di Maria, me la porto candidamente nel cuore, era stata morsa dalla tarantola dell’incomprensione e della frustrazione della vita soppressa, danzo per lei e le gambe non appena odo suoni di tamburello partono da sole, cominciano a schizzare come se il diavolo in corpo mi dicesse di farlo, come se un confine sottilissimo ancor più tra giusto e sbagliato s’azzuffasse in una neutralità che è solo vita o voglia di scappare, senza sapere dove. Le donne che soffrono da sindrome d’avvelenamento d’aracnide (onirica), sono molte, sono tante, sono a Sud, sono disperse e spiritate, l’inquietudine è loro sorella, sono mie compagne, sono bellissime nella loro tragica voglia di campare fino allo sfinimento, finché le ossa fanno male, ma hanno scelto il loro morso… E dal morso non si torna indietro… qualcuno vuole concedermi l’onore di ‘stuballu?

Chiara Nirta

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