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Il presidente Giuseppe Conte a Taranto, il commento di Mino Salvi, responsabile delle relazioni sindacali di Massafra (Ta)

Mino Salvi responsabile delle relazioni sindacali di Massafra (Ta): “Conte fa la cosa giusta. Finalmente l’Avvocato esce da Chigi, lascia la sua pretenziosa postura da premier e a Taranto diventa una persona. Prende atto del rischio di quella crisi sistemica temuta da Mattarella. Se c’è una strada per uscirne, comincia uscendo dai Palazzi.

 
Scarmigliato, faccia tesa, rughe scavate dalla luce della realtà invece di quella delle curate riprese tv, finalmente l’Avvocato che siede a Chigi, è apparso una persona. È uscito dal suo Palazzo senza nessuna regia preventiva, senza avvertire nessuno dei membri del suo governo (almeno, finora questo ci dicono), ed è andato a Taranto. Dove si è ritrovato preso nel gorgo delle tante facce della complessità dell’Ilva, schiacciato dalla ressa, spintonato da matrone arrabbiate, intercettato dalle tante organizzazioni che difendono l’ambiente, richiamato all’ordine di cori rabbiosi di “Chiuda la fabbrica”, e da operai che chiedevano che soluzione avesse in mano. Per entrare in fabbrica dove ha visto i sindacati interni, ha usato l’entrata 2, quella da cui entrano i lavoratori, e il passaggio fuori dai cancelli, che doveva essere di maniera, è durato 90 minuti. Novanta minuti a prendersi tutto quello che arrivava dalla folla. Per poi procedere all’incontro dentro la fabbrica, che, mentre scriviamo è ancora in corso.  
 
Bravo Giuseppe Conte. Magari è andato a Taranto solo per prendere tempo, perché non ha ancora nulla in mano per affrontare la crisi dell’Ilva, come dicono gli analisti politici. Ma il viaggio ha rotto la sua pretenziosa postura da Premier, e, quel che è più importante, ha rotto la claustrofobica circolarità del dibattito romano su questa crisi. Fornendo, con questa rottura, la prima indicazione che la preoccupazione che attanaglia tutti noi, che guardiamo sgomenti alle dimensioni di questa crisi innescata dall’Ilva, riesce forse a penetrare anche le venerande e sorde, spesse mura dei Palazzi Romani. 
 
Perché sì, la crisi partita dal ritiro di ArcelorMittal da Taranto, partita come l’ennesimo tormento Ilvesco, si è caricata per strada, per tempi e modi, di un minaccioso senso di presagio. Dopo il ritiro si accavallano gli annunci di altri fronti di crisi. Per primi quelli dell’indotto della stessa Ilva, le cui aziende hanno inviato lettere per mettere in cassa integrazione il proprio personale, giustificando la decisione come conseguenza di quella dell’acciaieria-madre. Scrive ad esempio l’Enetec, l’azienda che si occupa di progettazioni, costruzioni e montaggi nella lettera inviata oggi ai sindacati e a Confindustria Taranto: “In data 4 novembre la Società ha ricevuto da Arcelor Mittal comunicazione circa l’avvio della procedura di recesso. Tale circostanza, pur in assenza di comunicazioni ufficiali circa la possibile sospensione degli ordini, pone a rischio tutte le commesse ad oggi in fase di lavorazione”. Con un effetto sull’indotto che aggiunge 10mila posti di lavoro ai 10mila a rischio dentro l’Ilva. Nelle stesse ore arrivano cattive notizie dal fronte Alitalia: la Lufthansa blocca ogni decisione sul suo ruolo nel salvataggio della compagnia di bandiera italiana e pone anche lei condizioni dure, dichiarandosi per bocca del suo numero uno, Carsten Spohr, interessata “solo ad investire in una nuova Alitalia ristrutturata”. Frase che in soldoni significa tagliare 2.800 dipendenti e 20 aerei della flotta.
 
Insomma, magari è solo una impressione o una emozione, ma è come se l’annuncio del recesso di ArcelorMittal fosse l’avvio di una slavina, che rischia  di trascinare in un gorgo le tante vertenze aperte da mesi e settimane. Rievochiamone qui i numeri, presi dal “Sole 24 Ore” che in agosto ha contato le vertenze sul tavolo del governo, 150 casi dal 2016. Di queste solo il 38 per cento chiuso positivamente. Piccola percentuale sul resto: quel 34 per cento finito negativamente, e quel 27 per cento delle crisi ancora in corso, e di cui vediamo ormai quotidianamente i lavoratori coinvolti alle prese con proteste sempre meno efficaci.
 
ArcelorMittal, con il suo piratesco menefreghismo, ha aggiunto a questo drammatico declino, il senso di un generale liberi tutti: se i “padroni” dell’acciaieria più importante d’Italia e una delle maggiori in Europa possono alzarsi una mattina e andar via fregandosene di tutti i patti sociali e legali sottoscritti, allora ognuno può fare lo stesso. Questo è il segnale che viene da Taranto, e questa è la tempesta perfetta di cui si diceva. L’Ilva non è infatti solo il riaprirsi oggi una una antica crisi, ma è il cambio di passo delle relazioni legali e politiche come sono state definite finora nel nostro paese. L’addio dei “padroni” dell’Ilva è drammatico non solo per le sue conseguenze, ma per i suoi modi – che portano l’Italia dentro l’universo del nuovo capitalismo mondiale, quello crudo e sregolato che sta vincendo la sfida della globalizzazione. 
 
È esattamente il gorgo di trascinamento che teme il Presidente della Repubblica”.
 

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