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Mons. Caiazzo, l’omelia nella Santa Messa della Domenica delle Palme – 5 aprile 2020

«Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!». Sono le parole con le quali Gesù viene accolto nel suo ingresso a Gerusalemme. Sono le stesse parole che ripetiamo noi tutti, carissimi fratelli e sorelle dell’amata Chiesa di Matera – Irsina e quanti ci state seguendo da casa, in questo giorno così solenne: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!».

Lo facciamo consapevoli che, nonostante il clima di isolamento che ognuno di noi sta vivendo in questo tempo, la nostra preghiera si eleva dalle nostre case verso colui che oggi passa per le strade deserte di questa città e dei nostri paesi, riempiendole con la sua presenza e benedicendole.

La benedizione delle palme che ho compiuto nel nome della SS. Trinità è arrivata in tutte le vostre dimore, e i ramoscelli di ulivo o palme o altro sono stati benedetti. Si, perché la benedizione arriva oltre gli spazi, oltre le barriere degli uomini, oltre i confini dei comuni, oltre le mura delle stanze.

Dall’ingresso di questa chiesa Cattedrale, la chiesa Madre, alla quale tutti guardiamo giunga, attraverso di me, su tutti voi ogni grazia e benedizione.

La Domenica delle Palme è il grande portale che ci introduce nella Settimana Santa, la settimana nella quale il Signore Gesù si avvia verso il culmine della sua vicenda terrena. Egli sale a Gerusalemme per portare a compimento le Scritture e per essere appeso sul legno della croce, il trono da cui regnerà per sempre, attirando a sé l’umanità di ogni tempo e offrendo a tutti il dono della redenzione. Sappiamo dai Vangeli che Gesù si era incamminato verso Gerusalemme insieme ai Dodici, e che a poco a poco si era associata a loro una schiera crescente di pellegrini. San Marco ci racconta che già alla partenza da Gerico c’era una «grande folla» che seguiva Gesù (cfr 10,46) – Benedetto XVI –

Nella lettura della passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Matteo, abbiamo sentito i discepoli che chiedono a Gesù: «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua»? Mai come in questi giorni la domanda risulta così veritiera! La risposta di Gesù è altrettanta attuale. Sembra essere stata scritta per questi giorni che stiamo vivendo rinchiusi nelle nostre case: «Andate in città da un tale e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”. I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua».

L’inizio di questa Settimana Santa è segnata da una certezza: non siamo noi che veniamo in chiesa per celebrare la Pasqua, ma è lui che viene nelle nostre case. Senza rendercene conto Gesù ci sta chiedendo di mettere a disposizione le nostre chiese domestiche, di prepararle a festa e di fare festa come famiglia in comunione con tutte le altre famiglie: lui, con i suoi discepoli, entra per stare con noi.

Gesù ai discepoli dice: «Andate in città da un tale». Chi è questo tale? Non ha un nome specifico. In verità rappresenta tutti noi pronti ad aprire i nostri cuori, la nostra mente alla comprensione di un mistero che ci sovrasta e si rivela: è il mistero dell’amore di Dio che, nel Figlio Gesù, si immola per essere cibo di vita eterna, bevanda di salvezza nelle nostre case dove vivremo e gusteremo la Pasqua.

In questo contesto familiare, attorno alla mensa preparata, si ritrova il Maestro con i suoi discepoli, per celebrare la Pasqua, proprio come ogni famiglia ebrea.

Sembrerebbe, quest’anno, un ritornare alle nostre origini, della storia della salvezza. Come gli ebrei, usciti dall’Egitto, anche noi stiamo riscoprendo il clima familiare e l’amore che all’interno di ogni casa deve circolare. La presenza di Gesù nella casa di quel “tale”, oggi nelle nostre case, rende le nostre famiglie più ricche, nonostante tutte le ristrettezze del momento.

Da questo capiamo che celebrare la Pasqua non significa solo ricevere la “Comunione”, ma viverla. Significa condividere lo stesso pane e guardare ai bisogni e alle necessità degli altri. Vivere la Comunione più che fare la Comunione vuol dire gustare insieme la bellezza della vita e sentire il respiro di Dio.

Gesù mangia, spezza il pane, come ogni buon capo famiglia, ne magia lui e ne dà agli altri. Prende i calici del vino, ne beve e fa bere. E sotto le specie del pane e del vino s’intravede la sua presenza, il suo donarsi. Si spezza e si fa mangiare, versa il suo sangue e si fa bere.

Questo deve essere lo spirito che anima la partecipazione all’Eucaristia. Quante volte abbiamo partecipato ma non siamo stati animati da questo spirito!

Finita l’intimità in casa, Gesù va nel Getsemani per vivere quella con il Padre. Sono ore di angoscia, di tristezza. Vive il dramma di sentirsi solo, abbandonato, nonostante avesse chiesto, soprattutto ai tre discepoli ai quali era particolarmente legato, Pietro, Giacomo e Giovanni, di sostenerlo nella preghiera.

È triste vivere l’ora del dolore, del dramma del momento presente e non sentire la presenza di un affetto, di una mano che stringe la tua, di una spalla sulla quale poter poggiare la propria testa. È triste non sentire il conforto almeno della preghiera. È ciò che chiede Gesù: ha bisogno di essere aiutato e sostenuto: L’amarezza dell’isolamento e della solitudine gli fa sudare sangue.

Mai come in questi giorni la scena del Getsemani sta mostrando la sua attualità. Ciò che aspetta Gesù è davvero duro, tragico: senza nessuna colpa sarà caricato di una croce da portare e sulla quale essere immolato. Penso in questo momento ai tanti intimi, come i medici e i paramedici, che non trovano nemmeno il tempo per dormire pur di sostenere e accompagnare i tantissimi che muoiono crocifissi su uno dei tanti letti posti negli ospedali. Quando addirittura loro stessi rimangono crocifissi, donando la loro vita.

Questo è il momento della condivisione del dolore che va servito. È il momento in cui la corresponsabilità ci deve far sfuggire la tentazione del pensare solo a se stessi e alle proprie cose e capire che bisogna fare un passaggio molto importante: dall’io al noi. Non esisto io senza un tu, e quando ognuno si rapporta con un tu esiste il noi, cioè un bene superiore: il bene comune.

Tanti nostri fratelli e sorelle, improvvisamente, si sono trovati a portare una croce che non era loro, non conoscevano. Per noi, la maggior parte dei contagiati o morti, sono dei tali, dei cirenei, nel senso che non sappiamo chi siano, non conosciamo i loro volti, ma sentiamo la loro sofferenza e quella dei loro cari che vivono l’ora dell’impotenza, della crudeltà della vita. In certi momenti è tutto così inumano! Nemmeno un funerale!

Dal Getsemani alla crocifissione: un tratto della vita molto sofferto. Tutto è stato così assurdo! Tutto è ancora così assurdo! Gesù trova la forza nel cercare il Padre: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». In questa intimità c’è l’abbandono ma anche il grido di dolore nel cercare il volto del Padre. Tutto si compie non nel nulla ma nella salvezza che quella morte procura per gli altri.

Guai a noi se quanto stiamo vivendo, una volta che tutto sarà finito, dovesse cadere nel dimenticatoio. Se i sacrifici che stiamo facendo, compresa la rinuncia forzata alla partecipazione alla vita sacramentale, non si trasformeranno in aurora di risurrezione: nuovo modo di rapportarci con la vita, con la storia, con gli altri, con le cose, con gli affetti, con le scelte che siamo chiamati a fare.

Già oggi, da qui, bisogna ripartire con la consapevolezza che il futuro è già in atto, che dopo tre giorni Cristo ha distrutto la morte. La Pasqua allora sarà vera e autentica se entreremo in questa logica che è la logica di Dio: ha preso su di sé tutti i nostri peccati e li ha crocifissi lasciandosi crocifiggere, per rendere ogni uomo libero.

Sta a noi vivere la nostra esistenza sperimentando quanto madre natura ci fa contemplare in questo tempo di primavera: tutto sta germogliando, ogni forma di vita si sta risvegliando. I campi, i fiori, gli uccelli, in questo silenzio irreale che stiamo vivendo, sono l’inno alla vittoria della vita che siamo chiamati ad ascoltare, imparare, cantare.

Carissimi, seguiamo Gesù in questo suo salire verso Dio, passando attraverso la valle del pianto ma consapevoli di trovare una sorgente di acqua viva che sana quelle amare rendendoci tutti più veri, autentici, responsabili.

Così sia.

✠ Don Pino

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