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Dieci anni fa la morte di Marco Pantani

Il giorno di San Valentino è il giorno degli innamorati. Ma per chi ama anche lo sport in generale, è una data triste. Esattamente dieci anni fa ci lasciava Marco Pantani, soprannominato ‘il Pirata’, uno dei corridori più forti mai visti nel mondo del ciclismo. La sua morte, dopo 2 lustri, è ancora avvolta in un’aura di mistero. Pantani venne ritrovato senza vita, a soli 34 anni, la sera del 14 febbraio 2004 in una stanza del residence ‘Le Rose’ di Rimini. Una morte etichettata subito come causata da overdose. Ma sin troppe cose non hanno quadrato (e continuano a non quadrare). E’ stato il drammatico epilogo di una vita, quella di Pantani, che se cerebralmente parlando è finita in quel residence riminese, dal punto di vista sportivo ha una data indelebile: 5 giugno 1999, Madonna di Campiglio. Nel cuore del Trentino, Pantani si accinge a vincere il suo secondo Giro d’Italia consecutivo, dopo la straordinaria doppietta dell’anno precedente Giro-Tour de France.

Sono le ore 7,15 del mattino, Hotel Touring della suddetta località di montagna: l’ispettore medico Mario Spinelli bussa alla porta della stanza 27, quella di Pantani, ingiungendogli di presentarsi al più presto nella stanza di fronte, per sottoporsi ad un prelievo di sangue. Insieme a Spinelli ci sono Michele Partenope ed Eugenio Sala, suoi colleghi dell’ospedale ‘Sant’Anna’ di Como, delegati dell’UCI (Unione Ciclistica Italiana) per effettuare i controlli, nonché il Presidente dell’UCI stesso, Antonio Coccioni.

Dalle analisi emergerà che il tasso di ematocrito riscontrato nel ciclista romagnolo (cioè la percentuale di elementi corpuscolati presente nel sangue, es. globuli rossi, globuli bianchi e piastrine; la restante è occupata dalla parte liquida o plasma) è del 51,9%, superiore al limite consentito, cioè del 50%. Meno un punto di tolleranza previsto dall’UCI, il risultato finale è del 50,9, quindi sempre superiore. Risultato: Pantani deve abbandonare il Giro d’Italia, un Giro che, come detto, aveva in pugno, stravinto. Era troppo forte per i suoi avversari. Bisognava pur dare un pò di pathos ad una competizione monopolizzata dal Pirata.

Marco, in preda a un logico raptus di rabbia, rompe il vetro della finestra della sua stanza, è sicuro che quel valore non è reale, che c’è lo zampino di qualcuno, che si tratta di una trappola. “Uno degli ispettori deve aver riscaldato la mia provetta su un fornelletto a gas nel bagagliaio di una macchina”, affermò Pantani. Il corridore esce dall’albergo con la faccia livida, gli occhi persi nel vuoto, i carabinieri che lo attendono. Proprio la presenza delle forze dell’ordine dà alla scena quel tocco di estetica criminale, avvolgendolo in un alone di sospetto da cui non si sbarazzerà più. Alcuni tra i carabinieri diranno più avanti che la loro presenza era stata richiesta dal proprietario dell’albergo per garantire la sicurezza: vero o no, l’immagine del Pirata resterà offuscata.

Pesanti, molto pesanti sono le sue dichiarazioni alla carta stampata e non: “Mi sono rialzato, dopo tanti infortuni e sono tornato a correre. Questa volta rialzarsi sarà molto difficile”.La notizia attraversò il Belpaese come una scarica elettrica; migliaia di tifosi del Pirata rimasero ammutoliti, increduli, gridarono al complotto, difendendo il loro idolo a spada tratta. Quasi tutti capirono che la favola di questo ragazzo di Cesenatico aveva subìto una mazzata. Ma c’era anche chi lo ha crocifisso senza attenuanti, apostrofandolo con “DOPATO DI M…..”! Le stesse persone che lo avevano incoronato Pirata, ne seguivano le gesta con un tifo appassionato. Dalle stelle alle stalle, no?

Da quel triste giorno di inizio giugno, per Pantani la vita è un susseguirsi di depressione e dissolutezze, che culmineranno nell’uso di cocaina. Philippe Brunel, giornalista de ‘L’Equipe, nel suo libro ‘Gli ultimi giorni di Marco Pantani’, ha cercato di fare chiarezza sulla morte del corridore di Cesenatico, una morte sin troppo oscura, dubbia. Una morte per la quale Brunel e la gente tutta si sono posti, e continuano a farlo, diversi interrogativi:

1)      L’inchiesta della Procura di Rimini è stata archiviata in soli 55 giorni, con questa sentenza: Marco Pantani è morto di overdose. Come è possibile chiudere una sentenza in così poco tempo, se le Procure si prendono due anni, come previsto dalla legge?

2)      La stanza D5 nella quale è stato ritrovato il cadavere di Pantani sembrava uscita, testuali parole del medico legale Giuseppe Fortuni, “da un film di Schwarzenegger”: le sedie rovesciate, il frigorifero sul pavimento, il materasso senza fodera. Eppure sul corpo del ciclista non è stato trovato nemmeno il minimo graffio, la minima ferita. Quindi, come avrebbe fatto Pantani a devastare l’appartamento, senza scalfirsi nemmeno un’unghia?

3)      Lo stesso Fortuni ammise di essersi portato a casa il cuore di Pantani “nel timore che qualcuno lo potesse trafugare”. Chi avrebbe dovuto o voluto occultarlo, se Pantani era morto accidentalmente? Giornalisti? Tifosi? Il dubbio rimane.

4)      Le impronte digitali non sono state rilevate e, soprattutto, sul collo del corridore c’erano dei segni che difficilmente si sarebbe potuto fare da solo. Traccia non presa in esame?

La stampa, sul tema, ha dato spazio ad una tesi che considerare fantascienza è poco: secondo loro, il boss della criminalità milanese Renato Vallanzasca, avrebbe “deciso” la mancata vittoria di Pantani, a causa di scommesse colossali (un “traffico” da 200 milioni di dollari). Nella sua autobiografia, Vallanzasca è ritornato su questo fatto, confermando che lui e la sua organizzazione avevano puntato 10 milioni su Gotti e Jalabert.

L’avvocato di Pantani, Roberto Manzo, è molto dubbioso circa l’onesta e la sincerità dei controlli dell’UCI. Dai verbali si evincono testimonianze confuse, contraddittorie. Sala e Coccioni, durante l’interrogatorio del marzo 2005 sui fatti di Madonna di Campiglio, hanno sostenuto di aver scritto il numero di Pantani sulla sua provetta. Una provetta che gli fu consegnata, da prendere senza esitare, in barba alle regole dell’UCI, le quali sottolineano come il ciclista si presenta all’ispettore che controlla la sua identità, ed è lo stesso corridore che sceglie la provetta, e non il contrario. Ma i dubbi aumentano quando, sempre durante l’interrogatorio, Coccioni afferma di aver messo il laccio emostatico sul braccio di Pantani, mentre Sala afferma il contrario. Incongruenza pazzesca. Ma anche un errore marchiano degli avvocati di Pantani. Perché nessuno di loro ha ritenuto utile consultare la comunità scientifica. Avrebbero potuto individuare dei vizi di forma, laddove tutti hanno visto solo una forma di vizio di Pantani. Si sarebbero accorti, ed è ciò che più conta, che era possibile modificare il valore di un test, riscaldando la provetta su un fornellino da campeggio, proprio come aveva detto Pantani quel giorno a Madonna di Campiglio.

Inoltre il dottor Sante Tura, esperto in ematologia, aveva esaminato i parametri di Pantani (ematocrito, emoglobina, globuli bianchi, piastrine) in occasione dei controlli subiti dal 1996 al 1999. Ebbene, a Madonna di Campiglio Pantani era l’unico che aveva un livello di piastrine inferiore ai livelli abituali, senza che se ne potesse dare una spiegazione scientifica. Lo stesso dottor Tura ha specificato che il numero delle piastrine nel campione romagnolo, che si collocava solitamente tra i 165000 e 203000 per millimetro cubo, quel 5 giugno 1999, tre ore dopo l’abbandono della competizione, oscillava tra i 151000 e 162000: non ci voleva certo molto a capire che la provetta poteva non corrispondere alle regole di conformità.

Ma la cosa che più fa rabbia è datata 2000: il regolamento antidoping viene modificato in funzione di nuovi parametri. In soldoni, un corridore poteva avere un ematocrito superiore al 50% purchè il suo livello di emoglobina restasse inferiore a 17. A Madonna di Campiglio, il tasso di emoglobina di Pantani era di 17,1 e togliendo il famoso punto di percentuale, si arrivava a 16,1, in piena norma.

Un anno dopo i fatti, dunque, Pantani non sarebbe stato escluso dal Giro.

La madre del corridore, la signora Tonina, continua a chiedere giustizia. Secondo lei, suo figlio è stato ucciso quel giorno a Madonna di Campiglio, perché dava fastidio, e quindi gli hanno teso una trappola, allo scopo di eliminare un personaggio diventato “scomodo” per tutto il mondo del ciclismo. Troppo forte, troppo ambizioso, troppo popolare al punto da oscurare gli altri. La signora Tonina, inoltre, ha anche affermato che quella sera del 14 febbraio 2004, lei e suo marito non erano in casa con loro figlio. Quindi perché Pantani, anziché andarsene a Rimini, non ha deciso di fare uso di coca in casa sua, essendo, come detto, da solo? Perchè il miglior scalatore al mondo si sarebbe dovuto ridurre così?  Legittimo che una madre faccia di tutto per difendere il proprio figlio. Che accusi i giudici e il mondo del ciclismo di aver distrutto, soprattutto psicologicamente, il figlio. Forse davvero Marco Pantani aveva irritato troppa gente nel gruppo. Non concedeva più tappe, voleva vincere tutto. Può darsi che qualcuno abbia voluto dargli una lezione, che l’abbia aspettato al varco sapendo che, in quel giorno, si poteva incastrarlo. Come adesso, il ciclismo correva con la spada del doping sulla testa. Le voci giravano. Come fa, mugugnavano i suoi rivali, ad andare così forte? Anche i dirigenti del ciclismo insistevano perché si colpisse il doping con la massima severità. E Pantani era un simbolo. Un modo per dare una lezione esemplare, per dire: qui non si fanno sconti, anche i big devono rispettare le regole. Questa era l’atmosfera che si respirava in quei giorni. E, ad oggi, non sembra davvero cambiato granchè.
Resta il fatto che, da quel giorno, in Pantani si ruppe qualcosa. Il suo corpo, nato per vincere, s’ingrippò. Si chiuse in se stesso, non partecipò al Tour, anche se avrebbe potuto farlo perché la squalifica durava solo 15 giorni. Accusò i giudici di aver volutamente scambiato le provette incriminate, di volerlo colpire anche se innocente. Il suo ultimo lampo fu durante il Giro del 2000, quando lottò testa e testa con Lance Armstrong, il futuro vincitore di 7 Tour de France consecutivi (2000-2006), anche lui caduto nella spirale del doping e reo confesso lo scorso gennaio, quando, incalzato dalle domande della giornalista Oprah Winfrey, ha ammesso di aver fatto uso di sostanze ‘proibite’. Proprio il corridore texano era inviso al Pirata per la sua storia piuttosto tribolata: Armstrong scoprì di essere malato di cancro; si sottopose alle cure del caso, assumendo una quantità imprecisata di medicine, per poi tornare a gareggiare e, come detto, vincere 7 Tour de France consecutivi. Pantani, e come lui tutti gli sportivi, si è sempre chiesto chi mai fosse questo texano, che avrà sicuramente attraversato un periodo terribile, ma ciò non toglie che è alquanto improbabile vincere un Tour dopo essersi operati di cancro.

La morte di Marco Pantani, quindi, ci vuole insegnare che non è affatto facile stare sempre in prima fila, essere sempre all’altezza di una parte troppo impegnativa. Per farlo si rischia di dover fare un patto col diavolo. E il diavolo, quando non gli servi più, prima o poi ti molla. Da solo, davanti a un grigio mare di febbraio, senza un cane che ti dia una mano, il giorno di San Valentino, il santo degli innamorati; quell’amore che Marco Pantani aveva trovato in una ragazza danese, Christine, che ha condiviso con lui i primi periodi bui, prima di lasciarlo.  

Marco Pantani è stato un grande uomo vincente, che è ricorso al doping perchè partecipava ad uno sport in cui il doping è la regola del giorno.

Nicola Guanti

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