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“Gli anni dell’inquietudine lucana” in mostra nella città di Melfi

Nell’ambito della manifestazione melfitana “Augustali”, a Palazzo Donadoni, è stata allestita la mostra “Gli anni dell’inquietudine” per dare risalto alle condizioni di chiusura in cui versava il piccolo gruppo di intellettuali e artisti lucani nella seconda metà del Novecento . Le opere esposte sono quelle di Pasquale Cilento, Vincenzo Claps e Felice Lovisco. Ognuna di loro esprime segnali del cambiamento desiderato dagli artisti. Pasquale Cilento importò da Firenze un modernismo che si faceva fatica a capire nei luoghi lucani. Si era legati al figurativo realistico, alla scuola di Napoli, al tardo impressionismo. Rivelò la sua genialità nel riutilizzo della cultura contadina. Ripropose le figurazioni sveve e normanne, il divertimento ludico di Pascale e il disegno industriale di Munari. Vincenzo Claps nuota nella fantasmagoria dei colori. Il contrasto tra il viola e il verde mette in risalto la contrapposizione dei sentimenti umani. Felice Lovisco, negli ultimi anni, ha dato vita a un ciclo pittorico che esaspera Caravaggio. Ha proposto un lavoro fatto di buio e di creature che emergono difficilmente dalle ombre. La presentazione della mostra è stata tenuta da Raffaele Nigro. “Venne il ’68 e ci colse a cavallo tra la provincia e le scuole di formazione che ci aspettavano fuori regione. Il paese non cambiava – dichiara Nigro- , indolente, ieri come oggi. Il paese sonnecchiava, nelle controre e nei geli invernali. Lavoro, grandi abbuffate, un pugno di padroni che sotto l’ombrello di partiti di governo gestiva la politica e le aree edilizie, distruggeva necropoli, divorava tutto il divorabile. Eravamo chiusi tra l’acquiescenza di molti e la delinquenza di pochi. In questa condizione si espresse l’inquietudine, in una scrittura senza sbocchi, in una pittura dirompente, poco apprezzata. Nel piccolo gruppo, che si era spontaneamente formato – dichiara Nigro – discutevamo del gusto picassiano di Felice Lovisco e della passione geometrica e pragmatica di Donato Santoro, della scultura onirica e rabbiosa del naif Tonino Poppa, del totemismo di Pasquale Cilento, della non matura formazione di Giacinto Cerone o del neoimpressionismo della generazione più matura, quella di Alessandro Cassotta, Oscar Cerillo, Gaetano Maranzino, Felice Grasso. Eravamo giovani ricchi di speranze e incapaci di capire quale fosse la via giusta per raccontare al mondo la nostra rabbia. La partenza di Cerone per Roma lo salvò in qualche modo dal silenzio, anche se lo portò a una morte prematura, come accadde all’inquieto Poppa che si impiccò, come era accaduto a Pino Pascali travolto da un incidente e ad Andrea Pazienza ucciso dalla droga. Genio e sregolatezza. Degli altri ricordo che Mario Ala, un giovane metafisico di Rapolla si rifugiò nella overdose, Lovisco fuggì a Potenza, Giovanni Di Virgilio si chiamò fuori con il suicidio, io stesso mi rifugiai nell’editoria milanese. Cilento scelse Firenze.” Le stanze di Palazzo Donadoni hanno accolto le tele per far riflettere sull’ importanza della cultura e dell’arte e sulle possibilità di sviluppo che si possono realizzare intorno a questo fenomeno sempre più in crescita.

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